(Villafranca di Verona, 1 ottobre 1935 – Treviso, 13 giugno 2004) cresce in una famiglia che si occupava di amministrazioni agricole. L’iscrizione allo IUAV, nel 1956, costituisce l’occasione di entrare in contatto con alcuni dei talenti chiamati da Giuseppe Samonà ad insegnare nella scuola di Venezia: tra gli altri, Bruno Zevi, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Franco Albini, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Giancarlo de Carlo. Si tratta di figure tra loro assai diverse, per formazione e direzioni di ricerca; e forse, proprio queste differenti esperienze trasmesse, accomunate dall’assenza di una rigida “dottrina”, costituiscono l’insegnamento principale tratto dagli anni di studio che si traduce, in particolare nell’attività professionale degli anni sessanta e settanta, in una sorta di sperimentale discontinuità. Rimangono tuttavia fondamentali alcuni “incontri”: ad esempio, con l’approccio progettuale di Albini, in particolare nel campo del disegno del mobile; oppure con la concezione dell’architettura come impegno, praticata da de Carlo. Non a caso, i due corsi sostenuti con il primo avevano comportato la progettazione-realizzazione di elementi di arredo, in collaborazione con artigiani friulani; mentre il secondo era stato correlatore di Belgiojoso, nel 1961, del progetto di laurea, incentrato sull’area dell’ospedale di Santa Maria dei Battuti a Treviso.
Gli esordi professionali dello studio Bandiera e Facchini, aperto a Treviso nel 1962 con Paolo Bandiera -compagno di scuola fin dall’adolescenza-, sono complessi. L’attività progettuale non solo è divisa, come era normale in quegli anni, tra architettura, interni (di abitazioni e negozi) e oggetti di arredo, ma anche caratterizzata da “deviazioni”, talora temporanee e imposte dalle circostanze -come nel caso dell’insegnamento per Bandiera- talaltra in ambiti laterali alla professione, come la pratica della fotografia industriale e della grafica pubblicitaria per Facchini, che, tuttavia, assumeranno nel tempo un’identità precisa tra le attività dello studio.
Nel 1968 avviene il fondamentale contatto con l’azienda produttrice di mobili Faram. Il progetto di una camera da letto modulare laccata bianca, con le ante a scelta del cliente e le grandi maniglie a nastro in legno trafilato -Samantha è il nome e lo studio predispone anche la grafica del catalogo- viene messo in produzione e riscuote un notevole successo; ciò consente una “stabilizzazione” dell’attività dello studio che, a partire da questi anni, inizia a occuparsi in maniera continuativa dello sviluppo di elementi modulari per l’industria mobiliera, oltre che di progettazione architettonica. Nel primo settore diviene sempre più importante -anche se non sarà mai esclusivo- il rapporto di collaborazione con Faram: nei tre lustri successivi al fortunato progetto della “Samantha”, lo studio segue infatti la progressiva evoluzione tecnologica dell’azienda -sono introdotte lavorazioni del ferro e delle materie plastiche, fusioni, trafilature in alluminio- che va specializzandosi in prodotti per l’ufficio; Umberto Facchini diviene art director della Faram, oltre che consigliere d’amministrazione, ed è conseguentemente obbligato, in relazione allo sviluppo degli interessi dell’azienda al di fuori del mercato italiano, a frequenti viaggi per tenere i contatti con filiali e clienti esteri.
Il regesto dei progetti di architettura dello studio rivela in effetti una peculiare mescolanza di professione e ricerca. La pratica professionale corrente è infatti punteggiata da partecipazioni a concorsi -tra gli altri, quello per il centro storico di Treviso (1972, segnalato), per una scuola media superiore unificata a Montebelluna (1972, secondo premio) e per la scuola di Preganziol (1976, realizzata)- e, dai primi anni settanta, da esperienze di pianificazione per alcuni comuni della Marca Trevigiana (Arcade, Povegliano, Ponzano, Mansuè e Resana), per Rosolina e Cave del Predil.
Oltre a queste prove -che rivelano il permanere di una tensione utopica nel fare e una fiducia nella possibilità di governare, nell’ambito di un processo di partecipazione democratica, le trasformazioni del territorio- sono soprattutto le “occasioni di architettura” a rivelare l’imprinting veneziano dei due architetti. Il loro carattere, determinato dalla felice quanto rara concordanza di fattori diversi, ha fatto sì che esse si configurassero, di volta in volta, come interessanti sperimentazioni mirate -si pensi all’impiego della prefabbricazione nella casa Siviero (1972), oltre che nella scuola di Preganziol-, rigorosamente rispondenti alle condizioni definite dal programma e al contempo svolte con la massima cura e dedizione. Opere i cui esiti sono stati talora felicemente “condizionati”, a monte, dall’attivo coinvolgimento del committente -è il caso, tra gli altri, della villa Fanna (1973)- così come, in fase esecutiva, dall’entusiasta partecipazione del costruttore; opere che fanno trasparire le suggestioni derivate da numerosi viaggi “di istruzione”, filtrate però dalle convinzioni e dagli interessi dei progettisti e reinterpretate alla luce delle condizioni particolari dei luoghi in cui sorgono -come appare con particolare evidenza nei progetti per gli uffici della Sile (1965) e per le grafiche Vianello (1975).
All’inizio degli anni novanta Umberto Facchini inizia a ritirarsi dall’attività.
Alberto Bassi